Enrico il verde

10,00 €
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Enrico il verde di Gottfried Keller

trad. di Leonello Vincenti

con un saggio di Herbert Marcuse

a cura di Serena Burgher Scarpa e Adriana Sulli Angelini

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Recensione di Cerrato, O., da L'Indice 1993, n. 2

Il "classico della democrazia" o "un Kant piccolo borghese travestito da poeta"? Nella vita e nell'opera di Gottfried Keller (Zurigo, 1819-1890) sono stati visti entrambi gli aspetti. La riedizione italiana dei suoi due capolavori - il romanzo "Enrico il Verde" e la novella "Romeo e Giuletta nel villaggio" - ci dà la possibilità di tornare a riflettere su questo interrogativo. La storia di Enrico, che nasce nella mente dell'autore come "un piccolo romanzo triste sulla carriera, tragicamente interrotta, di un giovane artista", coincide in parte con la vita dell'autore. Come lui, Enrico Lee, proveniente da una famiglia della piccola borghesia svizzera e rimasto presto orfano di padre, sente la vocazione all'arte: si reca dunque a Monaco, dove trascorre alcuni anni da tormentato 'bohémien', fino a ridursi in completa miseria e decidere quindi di tornare in patria e impegnarsi in modo attivo nella società. Ma questo non gli sarà concesso dalla severa morale dell'autore: poiché ha abbandonato la madre, costringendola a morire di stenti, per inseguire la chimera dell'arte, non sarà neppure in grado "di svolgere un'azione efficace nella vita civile" e dovrà seguire la madre nella tomba. La maturità e la quindicennale attività pubblica porteranno l'autore a modificare tale rigida coerenza, così che nella seconda edizione (adottata da Einaudi) Enrico potrà sopravvivere e redimersi lavorando per la società. 

Sulle due differenti stesure del romanzo le opinioni della critica sono discordi. Indubbiamente la prima edizione, che presenta il vantaggio di una maggiore autenticità di motivi e di stile, è caratterizzata dalla mancanza di una struttura unitaria (la storia della giovinezza dell'autore, ad esempio, vi è inserita come lunga digressione, mentre poi lo stile autobiografico verrà esteso a tutto il romanzo); inoltre sono evidenti concessioni al gusto romantico e soggettivo del romanzo dell'artista, di cui invece l'edizione definitiva rappresenta "il grande contraltare epico", come sottolinea Herbert Marcuse nel lucido saggio posto a introduzione della traduzione italiana. Anche Luk cs sostiene la seconda stesura, in cui vede finalmente il vero "romanzo di educazione" di modello goethiano, poiché - abbandonata l'angusta alternativa tra la morte e il matrimonio - il protagonista interiorizza la tragedia e la supera grazie all'inserimento nella comunità. Con ragione Luk cs rileva pur nella tragicità della vicenda un ottimismo di fondo, derivante dall'armonia tra individuo e società, che andrà perduta nell'età moderna. 

Questa rasserenante certezza possiede in Keller tratti ingenuamente utopistici, che affondano nella fiducia riposta dall'autore nel sano equilibrio della sua Svizzera, ritenuta in grado di difendersi dalla "muffa nociva" della modernità. Sbaglia però chi vede in lui lo svizzero ottuso e campanilista, rigidamente chiuso agli influssi stranieri: al contrario, il soggiorno di Enrico in Germania, che culmina nell'incontro con la liberale democrazia del conte tedesco, e per suo tramite con la filosofia immanente di Feuerbach, responsabile della conversione all'ateismo del giovane, sono motivi centralissimi nello svolgimento del romanzo, di cui costituiscono anzi la base teorica. Altrettanto ingiustificata mi pare l'accusa mossa da Leo Löwenthal, che vede nella morale del romanzo (in particolare nella seconda versione) l'educazione alla rinuncia, all'adattamento alla borghesia, ad una visione del mondo ordinata e conservatrice. A mio parere, la rinuncia al matrimonio (e dunque a "quella che il mondo chiama felicità") cui assistiamo nell'episodio finale, non fa che suggellare la sovrana libertà del protagonista e della sua armonia con la "voce stessa della natura". 

Incapaci di rinunciare alla felicità, perché vittime innocenti di colpe altrui, sono invece i protagonisti della splendida novella "Romeo e Giulietta nel villaggio". Al titolo di memoria sbakespeariana l'autore è condotto dalla notizia, letta sul giornale, del suicidio di due giovani innamorati, figli di contadini che, a causa di una lite per il possesso di un campo, si sono distrutti a vicenda, sprofondando le rispettive famiglie nella condizione più miserabile. Così Keller attualizza una delle "belle storie su cui sono costruite le grandi opere di poesia", e con attento realismo sovrappone alla tragedia d'amore la "cupa tragedia borghese" del suo tempo, alimentata dal germoglio del capitalismo che interviene a sconvolgere l'idillio campestre con cui si apre il racconto. 

Come giustamente nota la traduttrice Anna Rosa Azzone Zweifel, nell'accurata ed esauriente introduzione all'edizione Marsilio, i giovani protagonisti sono lacerati dalla contrapposizione tra la sfera della "cultura", rappresentata dal mondo stanziale dei contadini, e quella della "natura", ossia il mondo selvaggio del violinista e degli altri "senzacasa", che con il loro stile di vita allegro e libero da norme morali attraggono e insieme respingono i due ragazzi. Questi celebreranno infatti le loro nozze senza "n‚ parroco n‚ denaro n‚ documenti", ma sentiranno poi di dover rifiutare quel mondo troppo disordinato e volgare per la purezza dei loro sentimenti. Il loro conflitto, che è anche dell'autore, appare senza soluzione: "Ci resta una sola cosa da fare, Vrenchen, celebriamo ora le nostre nozze e poi lasciamo questo mondo. Laggiù c'è il fiume, con le sue acque profonde. Là nessuno ci potrà separare e saremo uniti -, per molto o per poco, non ha più importanza" dice il novello Romeo alla sua amata. 

La purezza classica di questa tragedia, descritta con ineffabile dolcezza, possiede una forza assai superiore ad entrambe le chiuse del romanzo; la perfezione dell'immagine conclusiva, con la sagoma scura del barcone che si staglia nell'aurora di un gelido mattino autunnale, dalla quale scivolano giù, strettamente abbracciate, le due pallide figure degli innamorati, resta inimitabile. Il commento conclusivo dell'autore, che riporta l'ipotesi dei giornali "che i due giovani si fossero appropriati della barca per consumarvi le loro nozze empie e disperate, segno, ancora una volta, della dilagante immoralità e del degenerare delle passioni", riconduce il lettore alla realtà del tempo, esprimendo un giudizio severamente ironico sulla cosiddetta "morale" dominante, fornendo così la più chiara risposta a quanti lo accusano di "regressione borghese". 

Lo stesso racconto è stato ristampato senza testo a fronte nella vecchia ma sempre valida traduzione di Lavinia Mazzucchetti, con l'aggiunta di una pagina di Robert Walser e di una postfazione di Karl Wagner, scritta appositamente per questa edizione.

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